1915- 2015 la grande guerra

Questo è un capitolo estratto dai miei ricordi di bambino che una quindicina di anni fa decisi di scrivere in forma dialettale . La scelta fu obbligata dalla necessità di non perdere l’autenticità delle parole, lo stupore del vissuto che a sei, sette, otto anni si può avere osservando, ascoltando, assorbendo i fatti, i colori, le espressioni delle persone che saranno patrimonio indelebile dell’intera nostra esistenza. Così, con occhi spalancati e col cuore che pulsava forte io ho memorizzato i ricordi di guerra del nonno. Una guerra che ogni nonno vorrebbe rimuovere ma non può farlo fino a quando il proprio cuore ferito non trova la pace. Trasmetterla ai nipoti giustifica l’aver portato per tanti anni un simile peso.    Leggi la versione in Dialetto Bresciano

La guerra del nonno Batistù      ( in Italiano) 

Per la verità erano parecchie le avventure del nonno in guerra e, tutte, da far accapponare la pelle a un adulto. Per n
oi le imbastiva con tutto il suo buonumore e quasi sempre piangevamo per il troppo ridere. Solo quando son stato più grande ho capito che, mentre le raccontava lui a volte piangeva davvero. Qualcuna faticavamo a comprenderla e, alle nostre tante domande, lui rispondeva sempre: «Eh…era la guerra…! Era la guerra figlioli cari…!» Un’idea è stato in grado di trasmettermi: la guerra era una brutta cosa e i tedeschi erano dei poveri diavoli come noi e poi, per portare a casa la propria pelle, bisognava essere capaci di aver paura. Quelli che non avevano mai paura erano la, a ingrassare i vermi con un buco di baionetta nello stomaco; proprio come quei tedeschi che, in una notte senza luna, sul grappa, si sono fatti ammazzare dal primo all’ultimo. Mi raccontava che, in tasca, avevano tutti un pugno di riso che speravano di venire a cuocere, dopo la vittoria, a Milano. Nel dirmi questo, piangeva sempre.

C’erano anche degli episodi curiosi. Quando mi raccontava il fatto di “Salandra”, scuoteva la testa a destra e a sinistra, come se non capisse ancora oggi come avesse fatto a trovarvisi di mezzo. Era appena partito per il servizio militare quando, nel bel mezzo del  discorso che avrebbe dovuto dare morale a tutti per affrontare il nemico, uno stupido, proprio accanto a lui pensò bene di gridare: «Abbasso Salandra e la sua pelandra!» In un attimo, si ritrovarono lui, lo stupido e altri lì vicino, circondati dalla polizia militare e portati in carcerere dove restarono per sei mesi. Quando uscì, tanto per farlo sgranchire un po’, lo mandarono in prima linea.

Al fronte, non sempre le situazioni più pericolose riguardano il contatto con il nemico; prima di raccontare la storia del colabrodo (manester furat), solitamente andava a riempire la caraffa del vino e, io non gli do torto, perché solo il fatto di poterci bere sopra, a certe situazioni, era già un gran sollievo. In questo reparto di prima linea, il suo compito era di aiuto cuoco e, se ho ben capito, la sua più grossa responsabilità era di riuscire a riempire di pastasciutta tutte le gavette dei compagni, badando bene che alla fine restasse qualcosina anche per lui. Pare che un sergente maggiore, carogna, aspettasse sempre a servirsi per ultimo e poi pretendesse che tutto il rimanente fosse per lui.

Bisogna sapere che, il nonno Batistù, da anziano era un omaccione buono e simpatico, ma a vent’anni era grande, grosso, un po’ troppo nervoso e quando aveva fame gli si oscurava la vista. Dopo lunghe discussioni, il sergente maggiore non volle sapere ragioni e il nonno non si trattenne più. Gli picchiò con tutta la forza aveva il grosso mestolo sulla fronte. Bisogna sapere che in guerra vige la Corte Marziale, quindi furono portati via immediatamente: il nonno in manette e il sergente maggiore stecchito come un pesce essicato e con tutti i segni dei fori del mestolo sulla fronte. Per un po’ il nonno ebbe paura di venir fucilato, ma evidentemente il sergente doveva essere una gran carogna perché, dopo un sommario processo lo ritennero innocente. Come “premio” però lo mandarono a far la guardia in un avamposto che, mi parve di capire, era un po’ come se fossa già stato fucilato. Lì, ci diceva, aveva visto veramente la morte in faccia e noi, davanti a simili affermazioni, ascoltavamo senza più respirare.

Per fortuna che il nonno cercava di sdrammatizzare andando a prendersi un’altra caraffa di vino e capitava anche che, frugando nei suoi cassetti, insieme a qualche caramella per noi, portasse una medaglia annerita dal tempo attaccata a un nastrino tricolore. «Questa» ci diceva con gli occhi lucidi, «l’ho presa in quell’avamposto e…l’ho presa proprio perché sono scappato altrimenti…non l’avrebbero data a me, ma l’avrebbero mandata un giorno alla mia povera mamma…!» «Va avanti nonno, racconta!» gli dicevamo con gli occhi dilatati.

Lui continuava. «C’era un gran silenzio la notte in mezzo ai pini, con la neve alta e senza un filo di luna». Noi non respiravamo più, ascoltavamo immobili a occhi sbarrati. Lui guardava per alcuni istanti verso il campo di granoturco e poi continuava. «Faceva talmente freddo che la neve si rompeva come fosse pane biscottato. Stando di guardia in queste condizioni, non potevamo farcela addosso perché l’urina si gelava nella vescica» Noi eravamo seduti sul cemento bollente per il sole dell’estate, ma ci si gelava il sudore sulla fronte. «In certi momenti, ti passava per la mente la mamma e i tuoi fratelli, diceva, ma eri troppo preso a tendere l’orecchio e a fissare nel buio tra i pini oltre il filo spinato. Dopo un po’ però, quando il freddo cominciava a penetrare nelle ossa la sonnolenza prendeva il soppravvento. A un cero punto mi sembrò di sentire un rumore soffocato…come se un’infinità di pani biscottati, venissero schiacciati. Non volevo credere che potessero essere migliaia di piedi che avanzavano macinando la neve». Si fermò e guardò per qualche istante in un posto lontano, poi continuò. «I tedeschi avanzavano molto silenziosamente in mezzo ai pini, ma a vent’anni, quando hai paura di morire, senti anche il rumore del silenzio…»

Piangeva nel raccontarci quel che fece dopo, non per la vergogna, ma per l’emozione di essere scampato alla morte. «Mi sono messo a urlare: Allarmi, allarmi! E poi ho cominciato a correre. In un attimo sono balzati tutti fuori dalle trincee ed è cominciata una sparatoria infernale in una confusione terribile. Gli altri correvano verso il nemico e io verso le retrovie. Un capitano mi vide e gridò: Dove vai soldato? A prendere una cassa di bombe! Fu la mia risposta. E non mi videro più.

Da quell’inferno non tornò quasi nessuno ed io ho preso la medaglia per aver sentito prima di tutti i tedeschi e per aver fatto fallire l’attacco a sorpresa. Non ho nessuna vergogna per questa medaglia» ci diceva rigirandola tra le mani. «Era già meritata nel momento in cui ho sentito la neve che veniva macinata dai tedeschi e per aver continuato a sentirla, notte dopo notte per anni e anni svegliandomi di soprassalto come se fossi pazzo.» Con questi racconti il nonno mi aveva aiutato a capire una semplice regola e sono convinto che, a volte, si impara di più ad ascoltare queste esperienze che non in un anno di scuola: in guerra, più si campa e più è facile riuscire a portare a casa la pelle. Sembra semplice detto ora da adulto, ma a otto o nove anni sono convinto fosse un concetto difficile da assimilare. Ho anche capito che il nonno non era un gran patriota e questo forse farà torcere le budella a coloro che a quella guerra credettero fino all’ultimo, ma lui diceva sempre: «Io non riesco a capire perché la guerra fosse l’unica soluzione». Mi ricordo che gli davo ragione e, dopo essere cresciuto, penso ancora che avesse ragione.

Poco tempo fa, nel 1996, ho deciso di fare un viaggio nella ex Jugoslavia, dove era terminata da poco una bruttissima guerra. Era l’unica occasione per vedere qualche testimonianza direttamente coi miei occhi. Sono tornato a casa che ero ancora della stessa opinione.

Poi il nonno continuava: «Allora, c’era poco da documentarsi, non c’era né la stampa né la televisione e verso la fine, quando i morti si contavano a milioni, c’erano ancora dei capitani che pensavano di ribaltare le situazioni con il coraggio, non il loro però, ma quello dei loro soldati.» Bisognava conquistare una postazione ad ogni costo, aveva sentenziato il suo capitano.

E dopo un’altra caraffa di vino continuò: «Eravamo ammassati in una galleria, carichi con tutto ciò che ci era possibile trasportare. Il fucile aveva la baionetta in canna, lo zaino affardellato, e tante altre cose al punto che eravamo già sfiancati ancora prima di partire. Ci tennero lì in piedi senza riposare né dormire un giorno e una notte mentre le nostre artiglierie bombardavano senza interruzione. Quando sparavano le bombarde da "405", dove colpivano aprivano una cava.» Queste parole mi facevano una grande impressione perché io da piccolo conoscevo bene le cave di marmo e sapevo quanti anni e quanta fatica fosse necessaria per aprirne una. Poi continuava. «Le istruzioni erano chiare e ripetute cento volte e ogni volta seguiva l’appello. Volevano avere la certezza che nessuno disertasse. Comunque, finito il bombardamento, il capitano avrebbe chiamato uno a uno in ordine alfabetico.

Nel sentire il proprio nome bisognava lanciarsi fuori dalla galleria, verso il nemico. Chi aveva il cognome che iniziava per A non si rese nemmeno conto di morire. I tedeschi erano delle brutte bestie; due mitragliatrici incrociate facevano un fuoco d’inferno sulla bocca della galleria e i poveri diavoli non riuscivano a percorrere tre metri che si ammonticchiavano , morti, uno sopra l’altro come dei tronchi tagliati.» Faceva parecchie pause il nonno quando raccontava questo episodio e generalmente era sempre l’ultimo della giornata, come se la guerra fosse finita in quel momento, e forse era veramente questo il vissuto che gli era rimasto. Tutto il resto non aveva più significato. «Io, diceva, oltre all’esperienza, avevo anche il cognome che iniziava per P ed ebbi il tempo di pensare. Non erano ancora a metà alfabeto e i nuovi chiamati non riuscivano più a scavalcare i morti. Nessuno si salvava. Riuscii a mettere insieme un solo pensiero: meglio morire dopo che subito.

Quando il capitano, in un angolo ben nascosto gridò il mio nome, io non mi sono mosso. Piccinotti Paolo, gridò di nuovo, e io niente. Piccinotti Paolo per la terza volta… e poi l’elenco continuò. Io rimasi immobile attendendo una pallottola nella schiena. Intanto li vidi morire tutti, amici, giovani, vecchi, marmocchi e scapestrati.

Quando tutto fu finito il capitano mi si parò davanti con la pistola in pugno e con la voce bassa scandì le parole una a una: “Piccinotti Paolo, sarai fucilato”. Non ci crederete ma nel dirmi questo mi sentii come sollevato. Mi resi conto realmente che ero ancora vivo e questo mi diede una grande forza.

Lo presi per il bavero con tutta la forza che avevo e lo incollai brutalmente contro gli spuntoni di roccia della galleria. Sentii nettamente le sue costole che scrochiavano sinistramente.

Gli risposi poche parole: “ Se hai intenzione di denunciarmi, dillo che ti ammazzo subito” Ci guardammo negli occhi per qualche secondo e io penso che nei miei abbia visto le fiamme dell’inferno. Dopo di chè lo lasciai cadere a terra. Non ho più saputo ciò che lui fece o riferì. Non ci vedemmo più.

Io ho portato a casa la mia pelle e lui, mi dissero, la sua. Ma c’è una curiosità che mi sarebbe piaciuto soddisfare: a che punto dell’elenco sarà stato scritto il suo nome?...presupposto che fosse scritto…









                                                                                                                                                             Il nonno Batistù in una fotografia ritratto con dei giovani del tempo e il parroco